11/20/2007

Il carattere

germano era decisamente più basso di martino ma decisamente più alto degli altri tre della banda. Non era muscoloso ma aveva quella corporatura grossa e compatta di chi, ad un metro ed ottantacinque, può pesare 110 chili senza avere un filo di grasso. Se martino era una pantera gigante, lui poteva essere un toro da monta. In un film di gladiatori romani lui sarebbe stato l’eroe protagonista vincente, martino il terribile nemico gigante infine battuto nell’arena. Con bacio finale alla fighissima e bonissima regina rubata all’imperatore cattivo (fabrizio) sgozzato.



fabrizio, profondo e sensibile, ammirava come germano riuscisse, senza particolari doti intellettuali, a carpire i chiavistelli mentali delle persone e a fare leva su questi per essere rispettato, temuto, obbedito.

nullo. Che vogliamo dire di nullo? Intorno all’età della pubertà, quando si iniziano a formare le comitive, si trovò, senza fare nulla, in una di queste. Non era un personaggio talmente insignificante da essere notato almeno per questo, ma era il perfetto nullo, cioè, non completamente, ma dotato di quel tanto di normalità grazie alla quale poteva non essere percepito come un bizzarro (dunque visibile) decerebrato.



nullo aveva un corpo lungo e magro, sgraziato, privato nel tempo di qualunque attività fisica che avrebbe contribuito a sviluppare armoniosamente la sua struttura. nullo aveva per gambe due pali, due piccoli pali secchi (germano diceva che aveva le gambe simili ad un capretto), e le spalle erano pressoché inesistenti: l’alzare un motorino caduto poteva creargli più d’una difficoltà.



Un giorno, in una di quelle riunioni a sfondo erotico tra pischelli, tipo condivisione di materiale VM 18, nullo conobbe fabrizio, che fu il primo a sfuggire l’inganno della quasi-nullità di nullo, soprannominandolo però ugualmente ‘o nullo. nullo non tradì mai fabrizio, la sua inettitudine era solida come pietra; fabrizio lo ritenne sempre intelligente a suo solo uso e costume. nullo era era uno di quei matti ai quali si affidano compiti semplicissimi ma che richiedono affidabilità assoluta, quanto bastava per diventare la mente destra di fabrizio, che lo avrebbe infatti poi voluto nella banda. La capacità di fare a testa bassa tutto ciò che gli veniva comandato gli valse -ma solo dentro la banda- la promozione da ‘o nullo a ‘o mullo, nel senso proprio del mulo. Una vera gratifica per lui. fabrizio lo sapeva e opportunamente dosava i soprannomi: quando c’era da fare qualcosa e gli si rivolgeva per la prima volta lo chiamava nullo, poi, quando ciò che serviva era stato fatto, nullo veniva sostituito con mullo. E mullo dentro era contento.

tanucci aveva un viso amabile pulito e capelli biondi ricci; il corpo, che sarebbe stato flaccido nel giro di qualche anno, dava al momento l’idea di essere solo piacevolmente rilassato. Il ragazzo sentiva dentro forti pulsioni a fare, un desiderio di essere, e ancor più di segnalarlo; avrebbe fatto molto per cavarsela in questo mondo, ma non di tutto. In buona salute, ma affaticato mentalmente si impegnava, fin da piccolo era stato abituato troppo agli apprezzamenti. Voleva riuscire ma le sue connessioni cerebrali non erano all’altezza di trasformare le pulsioni in operatività, in strutture concrete e concretizzabili di idee; i suoi slanci si diluivano nel corso dei pensieri, perdendo vigore fino a che le pulsioni di rinuncia eguagliavano quelle creative, per poi sopraffarle al traguardo finale di ogni manifestazione importante di vita. Aveva abbastanza intelligenza per capire di essere un pelo meno intelligente di quanto necessario per giungere al successo. tanucci soffriva ed odiava se stesso.



Non riusciva ad essere aggressivo, gli slanci di rabbia, odio, morte, vendicatività, si smorzavano prima di ferire gli altri e, alla notte, gli ultimi barlumi di questa aggressività morente si spegnevano irrimediabilmente e comunque contro di lui. Era una bomba inesplosa perché senza detonatore. Per esplodere avrebbe avuto bisogno di un detonatore esterno e di qualcuno che lo azionasse.

martino, che invece era una bomba potentissima, con un detonatore ben funzionante, non aveva la facoltà di azionarlo da solo. Aveva una moralità da onesto contadino e, se incitato da chi ritenuto “signore”, colto, autorità, avrebbe potuto compiere, con la sua forza fisica e il suo slancio passionale, qualunque cosa (di lui ricordo anche una testa enorme, davvero grande). Suo nonno, classe 1898, era alto un metro e novanta ed era morto ai mondiali di Italia 90 esultando troppo al sesto goal di Schillaci. Il suo cuore aveva fatto abbastanza con due guerre mondiali pulsate da bersagliere. Suo padre, classe 1945 sfiorava con la testa gli stipiti delle porte ancora vuote delle case che costruiva. Quando martino aveva 14 anni era solo un po’ altino e magro (1.75 per 60 kg), ed il padre lo mandò a fare nuoto e karate al Coni di Roma (i carpentieri guadagnano un botto) per farlo irrobustire un po’. E poi un ragazzo di paese deve svegliarsi in città. Fatto sta che a 17 anni martino aveva già superato i due metri e i tre mesi d’estate li faceva in cantiere con il padre, alzando due sacche di cemento insieme, una per braccio (fanno 50 kg l’una). Altro che nuoto. Il papà, che non voleva che il figlio crescesse grande grosso e fregnone, dai tempi dell’asilo gli faceva un giochino: “mo te pio a schiaffi, uno a destra uno a sinistra, comincio piano e poi aumento finché nun me dici basta”. A quindici anni martino smise di dire basta a suo padre, nonostante le sue mani enormi, indurite da decenni di calce e tavole spezzate sulle ginocchia, tentassero di staccare la testona quadrata coi ricci neri di martino. Si volevano tanto bene.



fabrizio il roscio, invece, era agile ma non forte. I suoi studi di ingegneria lo avevano portato a capire il senso delle cose, in ogni quotidianità che viveva. Tutto per lui aveva una spiegazione logica, dunque il suo agire proveniva -anche per le cose più superficiali- da un ragionamento completo. Per questo era refrattario all’autorità, intesa come coercizione non motivata da teoremi, teoremi che invece lui forniva lasciando, stupefatti, gli interlocutori brillanti e, perplessi, quelli mediocri. fabrizio mangiava a bocca piena perché la maggiore pressione del bolo alimentare sulle papille offriva maggiori sensazioni gustative; assumeva smorfie strane e diverse se beveva succo d’ananas o pepsi, in quanto liquidi di diversa acidità e dolcezza venivano opportunamente incanalati verso gli appropriati settori della lingua. Era un salutista puro, basti ricordare che, dopo aver bevuto spremuta d’arancia, evitava di ruttare per almeno due ore: per non rischiare di espellere preziosa, ma volatile, vitamina C.
Insomma, ognuna delle piccole azioni della vita di tutti i giorni seguiva per lui una particolare procedura che, se dall’esterno poteva sembrare inutile, dispendiosa o quantomeno bizzarra, in reltà aveva dimostrato essere il modo giusto a chiunque l’avesse criticata o stoltamente derisa. A lui non costava nessuna fatica, né un tempo più lungo, seguire queste sue esatte procedure di vita. fabrizio non permetteva a nessuno di guidarlo ed ammirava grandemente i pochi che raramente riuscivano, al più, a correggerlo. In apparenza non amava essere lui a guidare gli altri, desiderando in cuor suo che tutti scoprissero ed applicassero autonomamente le verità che egli aveva conquistato; ma troppo spesso percepiva il livello inferiore degli altri. Dunque, in qualche modo, si sviluppava in lui un desiderio profetico di guidare, instradare, illuminare le persone intorno a sé. Per far ciò la sua sensibilità lo conduceva a sedurre e a governare indirettamente, senza forza diretta, quelli che lo circondavano. Da bambino soffriva l’analisi che faceva di sé e di suo fratello Filippo, riconoscendo, infatti, i limiti logici ed intellettuali di quest’ultimo. Ma vedeva in lui una immensa superiorità spirituale, una purezza morale ed interiore alla quale solo un santo può avvicinarsi e, benché fosse contraddistinto da una purezza ingenua, non acuta, era pur sempre una virtù che fabrizio sapeva di non poter mai raggiungere. Quando suo fratello morì, fabrizio semplicemente accettò di essere un impuro tra gli impuri, ma il più intelligente, che avrebbe perseguito nella vita l’obiettivo di eliminare tutti gli impuri meno intelligenti che avevano macchiato -o avrebbero potuto macchiare- di sangue il candore ingenuo del fratello. fabrizio temeva di impazzire, sapeva che la banda non era un modo ottimale di raggiungere il suo scopo. Ma forse non c’era un modo ottimale, o forse non aveva uno scopo. Bloccava con una palata di fango i suoi pensieri quando imboccavano questo sentiero e, se poi riemergevano, li sotterrrava nuovamente, in una costante lotta contro il suo nemico interiore, il niente. Tutto quello che cercava di fare, di creare, di organizzare, era qualcosa che teneva lontano il niente. Il niente aleggiava minaccioso ogni qualvolta un’azione della banda si era appena conclusa, un senso che lui seppelliva sotto nuovi pensieri e nuove idee. La banda aveva dunque una mente attivissima, e pericolosa. Gli altri non desideravano di meglio, ognuno era legato più che a sangue a fabrizio, erano schiavi dei suoi voli, era troppo facile e bello avere una guida che dimostrasse loro la necessità di realizzare le più sensuali perversioni che covavano dentro. L’integrazione simbiotica di ruoli perfetti, la banda del luc. Ma bisogna andare con ordine, perché chi comanda nella banda non è certo l’ingegnere.